La recente vicenda descritta da tutti i quotidiani del mondo che ha visto il portiere del Liverpool Karius durante la finale di Champions League contro il Real Madrid commettere due incredibili errori che sono costati alla squadra inglese la coppa tanto ambita, ha messo l’accento sul tema della commozione cerebrale meglio nota come concussione cerebrale. Il tema sicuramente discusso vede tuttavia ancora, almeno in Italia, una certa difficoltà nell’intervento e nella diagnostica fine. La prima confusione nasce forse dai termini con cui questo evento viene defiinito, “lieve lesione cerebrale, lieve lesione cerebrale traumatica, lieve trauma cranico, fino al trauma cranico minore e commozione” vengono usati spesso con lo stesso significato. La commozione cerebrale (o il trauma cranico commotivo) corrisponde ad un trauma al cranio con una conseguente temporanea perdita della funzionalità cerebrale, accompagnata da vari sintomi fisici, cognitivi ed emotivi che, proprio quando sono minimi possono anche non essere riconosciuti se non vengono applicati strumenti adatti non essendo spesso il soggetto traumatizzato in grado di identificare soggettivamente variazioni cognitive minime (talvolta nemmeno variazioni importanti).
La concussione cerebrale è un evento traumatico tutt’altro che eccezionale. Ogni anno, anche in Italia si stimano migliaia di casi di traumi cranici correlati alla pratica sportiva, una cifra che secondo gli studiosi sarebbe ampiamente sottostimata proprio per i criteri di definizione dell’evento. Vi sono infatti, come detto, diversi gradi di gravità di concussione cerebrale i cui effetti possono essere poco significativi o severi, e l’obiettivo principale in tutti i casi dovrebbe essere una valutazione raffinata e precoce degli esiti. Per rendere l’idea, ad esempio, una scala approvata a livello internazionale prevede l’osservazione di alcuni “sintomi” per la classificazione del Trauma.
Tali sintomi sono sicuramente di una certa gravità ed osservabili durante il periodo di appunto “osservazione” al quale il traumatizzato cranico dovrebbe essere sottoposto in ambiente sanitario.
Ma in caso di un trauma cranico che non presenti immediatamente questi sintomi così gravi? Non dimentichiamo che il portiere del Liverpool ha continuato a giocare la partita. Avrebbe potuto farlo se si fossero presentati i sintomi riassunti in tabella? Certamente no. Ma si sarebbero potuti presentare tardivamente? A questa domanda si potrebbe rispondere con un plausibile “forse sì”, ma anche con un altrettanto plausibile “forse no”. Cosa sarebbe stato evidente poi? Se fosse stata una partita di campionato, avrebbe giocato la partita successiva? Lo avrebbero considerato idoneo in assenza di sintomi chiaramente indicativi di una trauma cranico? Come e ci si sarebbe accorto di un simile e sottile deficit cognitivo? La presenza di deficit cognitivi sfumati infatti non sempre è percepibile dalle persone, tanto meno il buon Karius si è reso conto di avere un disturbo visuospaziale durante la partita, tant’è che ha continuato a giocare facendo errori impensabili per un professionista del suo calibro. Quindi il sintomo c’era ma non era stato identificato nemmeno dal portiere stesso, nemmeno dallo staff. Sarebbe continuato a passare inosservato se il Liverpool avesse vinto la partita? Forse sì.
La percezione di una difficoltà di concentrazione spesso viene sottovalutata, o attribuita ad altro, alla stanchezza, alla condizione esterna. Spesso infatti è proprio nella natura del trauma cranico la tendenza a sottovalutare i sintomi (consapevolezza di malattia) o alla negazione degli stessi. A questo si aggiunge un altro fattore importante la cui natura è psicologica ed ha a che fare con il senso di efficacia, infallibilità, di necessità, che spesso ci fa sottovalutare le nostre difficoltà e sovrastimare le nostre possibilità.
E’ difficile dire “sono stroppo disattento per giocare” in una finale di Champions League. Soprattutto quando quella disattenzione o mispercezione visuo-spaziale è difficilmente percepibile dal giocatore. Questa difficoltà di percezione, se isolata, se in assenza di altri sintomi che “per protocollo” darebbero avvio ad una serie di esami clinici, potrebbero non essere mai indagata.
Una valutazione neuropsicologica, meglio se computerizzata, difficilmente entra nella routine di uno sportivo, lasciando in tal senso scoperto un duplice controllo della performance: la prima è cognitiva, ovvero una baseline che descriva come è lo stato cognitivo della persona prima di un trauma la seconda è il suo controllo nel tempo e la correlazione con le variabili psicologiche ed emotive.
Una alterazione della nostra cognitività, un disturbo dell’attenzione ad esempio, esito più frequente di un trauma cranico anche lieve, lo osserviamo comunemente nella vita di tutti i giorni quando talvolta, in situazioni particolari (ansia, stress, preoccupazioni) siamo convinti di essere cognitivamente al cento per cento ma se sottoposti a prove specifiche potremmo invece risultare al di sotto dei nostri personali standard di funzionamento mentale. E noi persone comuni non abbiamo bisogno di elevatissime prestazioni costanti, possiamo compensare con momenti sì e momenti no, ma questo non è certo il caso di un atleta nel bel mezzo di un match di altissimo livello. Non riusciamo a misurare la defaiance cognitiva da soli ma lo può fare solamente uno specialista esperto con un sistema sofisticato di testing neuropsicologico.
In tal senso la necessità di avere un database che fornisca la cosiddetta base line, il punto di partenza dello stato cognitivo dell’atleta in condizioni ottimali diviene fondamentale per riuscire a misurare variazioni minime in condizioni ad esempio di contusione e di trauma cranico anche minimo ed anche in assenza di sintomi maggiori.
Lo studio neuropsicologico e neurofisiologico dello stato dell’atleta infatti può rivelare ad esempio una condizione psicofisica non ottimale anche in condizioni di assenza di lesione cerebrale o di trauma cranico. Una alterata velocità di elaborazione dell’informazione cognitiva (attentiva, visuospaziale ecc.) potrebbe essere infatti dettata da uno stato ansioso o di paura di cui il giocatore non è consapevole o che non afferma alle interviste strutturate. Il dato cognitivo, dato dalla valutazione neuropsicologica e misurato in modo validato e standardizzato è, assieme al dato neurofisiologico, il solo metro di misura reale e indubbio dello stato psicologico dell’atleta, essendo al di fuori del suo controllo cosciente, sia esso dipendente da variabili emotive sia esso dipendente da episodi traumatici. Queste infatti sono le indicazioni internazionali per una moderna corretta e realistica osservazione del comportamento del giocatore o dello sportivo o dell’atleta a qualunque livello.
Sicuramente non vi sarebbe stato il modo ed il tempo per testare il portiere del Liverpool e verificare una alterata cognitività in campo, sicuramente le cose sarebbero andate così ugualmente, ma l’impegno da parte della medicina dello sport e le indicazioni neuroscientifiche certamente, in un futuro prossimo, dovranno considerare queste necessità, trovando posto ad una equipe multidisciplinare al servizio dello sportivo e promuovendo la validazione di strumenti sofisticati che possano identificare con la massima precocità e sensibilità alterazioni significative dello stato cognitivo come indicatore di benessere psicologico. Sarebbe quindi infine auspicabile che la risposta a queste valutazioni divenisse alla base della decisione di una ripresa piena dell’attività agonistica per non far correre rischi allo sportivo.