In questi giorni stanno facendo molto rumore le dichiarazioni rilasciate da Christian Abbiati a “La Gazzetta dello Sport” riguardanti la gestione del gruppo nello spogliatoio. Il portiere rossonero, giunto quasi alla soglia dei 39 anni di età, ha annunciato di voler lasciare il calcio giocato, in parte per la mancanza di divertimento e serenità che a questa età è difficile ritrovare soprattutto a causa dei numerosi acciacchi fisici, come afferma egli stesso: “In realtà nelle ultime partite avevo già staccato la spina ed era giusto che con Brocchi, che è il mio migliore amico, fossi schietto. La mia decisione è dipesa anche dalle prospettive per il prossimo anno: arrivavo da un attico, sono sceso al pianterreno e rischiavo di finire nel sottoscala. Una questione mia di dignità e orgoglio”.
In parte però questa difficile decisione è data anche dalla totale assenza di coesione nel gruppo-squadra vissuta in prima persona dal giocatore di Abbiategrasso: “Ho pensato per la prima volta di smettere dopo il mio sfogo col Chievo, a metà marzo, ma la decisione definitiva è arrivata dopo il Bologna: avevo fatto il pieno. Quando Bacca fu sostituito col Carpi e lasciò il campo senza aspettare la fine e senza salutare chi entrava, nello spogliatoio lo ribaltai. Ebbene, mi sono girato e nessuno mi ha supportato.
Evidentemente certe cose o non si hanno dentro, o proprio non interessano. Ai miei tempi Gattuso avrebbe tirato fuori il coltello. Se chiudo gli occhi e ripenso al Milan fino al 2011, vedo un’altra squadra, sotto tutti i profili. Io ragiono secondo certi valori che mi hanno trasmesso Albertini, Costacurta e Maldini. In carriera sono stato multato solo una volta, per un ritardo. Non sto dicendo che a quel tempo vivessimo in clausura, ma quando ci allenavamo andavamo a mille. Ancora oggi se si perde male, a me non viene nemmeno in mente di farmi vedere in discoteca. Durante la stagione ero arrivato a un punto in cui il lunedì mattina avevo ansia quando uscivo di casa. Per come andava la squadra mi vergognavo a uscire, anche se la mia coscienza era pulita”.
“In generale posso dire che ci sono stati 4-5 elementi che non hanno fatto quanto gli veniva chiesto e non parlo di errori tecnici. Il fatto è che se fosse stato solo uno, lo avresti potuto controllare e lo isolare, ma cinque sono tanti e diventa tutto molto più complicato”. Dalle sue parole si può capire come la sua non sia stata una decisione maturata nel tempo e pienamente consapevole, ma più dovuta alla situazione esterna contingente, vale a dire alle difficoltà in cui versa il Milan in campo e alla percezione di non sentirsi più importante ed apprezzato dai compagni come un tempo nello spogliatoio.
Queste ultime due situazioni sono indissolubilmente legate tra loro, perché non si può pensare che una squadra poco unita possa poi produrre prestazioni di alto livello sul rettangolo di gioco e, come dimostrano le formazioni che hanno avuto maggior successo nel corso della storia dello sport, la coesione di gruppo è uno dei fattori psicologici fondamentali per riuscire ad ottenere grandi risultati. Il processo inverso non può avvenire, perché se è vero che “vincere aiuta a vincere”, aumentando così la fiducia dei singoli e del gruppo, è altrettanto inconfutabile che questo processo può verificarsi soltanto quando sono presenti dei requisiti mentali basilari negli sport di squadra: la coesione è assolutamente uno di questi princìpi psicologici.
In questo caso specifico inoltre la situazione sembra particolarmente complessa da analizzare e da affrontare perché il Milan come società veniva da un periodo di grandi vittorie, durato circa 20 anni e conclusosi intorno al 2012. Nel quadro complessivo appena descritto rientra sicuramente anche qualche stagione meno brillante, che nel calcio professionistico di altissimo livello può capitare a tutte le squadre. Visto però quanto detto dal portiere milanese e milanista, sono state le personalità forti dei grandi giocatori e dei grandi uomini che si sono susseguite e spesso anche avvicendate nel gruppo a dettare le regole e farle rispettare, sia dentro che fuori dal campo. Per questo motivo quando grandi campioni come Gattuso, Inzaghi, Seedorf, Nesta, Maldini, Zambrotta e Oddo hanno deciso di smettere con il calcio giocato sono iniziati i problemi.
Gli screzi interni alla squadra avvenuti durante la stagione 2011-2012 tra le stelle rimaste nel club come Ibrahimovic, Thiago Silva, Pirlo, Ambrosini e Boateng , solo per citarne alcuni, e le nuove giovani leve su cui il club aveva investito molto, El Shaarawy e Pato su tutti, hanno portato ad ottenere un risultato fallimentare: il secondo posto in campionato con una squadra nettamente più forte delle altre concorrenti. Al termine di quella annata, viste le incomprensioni, la mancanza di un clima disteso e di un gruppo coeso, unite ai risultati non esaltanti descritti in questo quadro complessivo, i giocatori fondamentali e di calibro internazionale sopra citati hanno deciso di lasciare il club per intraprendere nuove avventure in altre società.
Da quel momento in poi il Milan ha vissuto stagioni sportive di media classifica con risultati non alla altezza dei traguardi raggiunti fino a poco tempo prima. Il motivo di tale insuccesso perciò è da ricercarsi nella scorretta gestione del gruppo, visibile da un doppio punto di vista: perché i giocatori rimasti, come lo stesso Abbiati, abituati ad una gestione salda dello spogliatoio, esercitata internamente grazie alla leadership di alcuni membri, si sono sentiti quasi in dovere, forse anche per questioni di esperienza, di prendere il testimone lasciato dai loro ex compagni e di esercitare questa forma di conduzione nelle dinamiche interne; mentre i nuovi arrivati, soprattutto se considerati giovani promesse, probabilmente avrebbero preferito una forma di controllo esterna che venisse esercitata dalla società e non dai compagni, da loro considerati allo stesso livello.
Entra così a far parte del quadro complessivo anche la società, che nella figura del team manager e dei suoi collaboratori avrebbe dovuto prestare particolare attenzione a queste dinamiche, prendendo poi, in seguito ad una iniziale fase di osservazione, delle decisioni significative, non solo per fare chiarezza, ma anche per dimostrare così ai propri calciatori di essere presente ed infine per stabilire una linea guida nella gestione dei rapporti e delle relazioni interpersonali che fosse in linea con il modo di agire (modus operandi) del club.
Una soluzione come quella di inserire nel proprio staff una figura come lo psicologo sportivo per esempio avrebbe potuto risolvere quasi sul nascere questa situazione spiacevole, permettendo così ai giocatori di esprimersi meglio, senza pensieri negativi, screzi o condizionamenti di sorta. Un professionista esperto del settore mentale avrebbe potuto fronteggiare questa situazione in un modo relativamente semplice:
- Tramite una attività collettiva proposta per risolvere i conflitti interni, come un colloquio di gruppo, meglio se moderato sia dal mister che dal team manager, in cui la squadra avrebbe potuto confrontarsi per capire quale modalità di gestione del gruppo avrebbe preferito adottare.
- Tramite la sollecitazione di una partecipazione e una attenzione maggiore a questo tipo di situazioni da parte della società, che indicando fin da subito le proprie linee guida e stabilendo magari anche un codice comportamentale o un regolamento interno alla squadra, avrebbe potuto ridurre la portata di questa problematica e risolverla in un tempo minore.
Nello specifico, la Psicologia dello Sport, riguardo alla formazione di una squadra unita e cooperante, afferma che questo processo può avvenire in 4 stadi:
- Forming: i membri familiarizzano, studiano forze e debolezze reciproche, verificano se sono parte del gruppo, identificano il loro ruolo, comparano la attenzione che il coach dedica a ciascuno di loro; il gruppo individua i compiti. Questa prima fase è importante perchè deve coinvolgere tutti.
- Storming: i membri attuano atteggiamenti di resistenza al leader, rifiutano il controllo da parte del gruppo, sono in conflitto con le richieste poste; il gruppo comincia a fissare le prime regole di squadra. Il coach deve attuare un tipo di comunicazione aperta, lo stress deve essere ridotto per ridurre le ostilità tra compagni.
- Norming: i membri sostituiscono l’ostilità con cooperazione e solidarietà, sono rivolti alla coesione, nutrono un profondo senso di rispetto per gli altri, avvertono la stabilità dei reciproci ruoli: il gruppo lavora per un obiettivo comune. In questa fase risulta fondamentale complimentarsi per gli sforzi, i miglioramenti e la qualità della performance.
- Performing: i membri incanalano tutti gli sforzi per il successo del team, ricorrono al problem solving come processo di gruppo, si aiutano reciprocamente; il gruppo è orientato alla performance. Diventa necessario creare un clima di collaborazione, eliminare competizione ed aggressività verso i compagni.
In questo caso specifico risulta particolarmente difficoltoso, anzi spesso addirittura impossibile, il passaggio dalla fase “Storming” a quella “Norming” perché le conflittualità interne non vengono risolte dalla squadra. La situazione appena analizzata può avere ricadute molto negative non solo a livello professionale sui singoli giocatori, ma soprattutto a livello umano sulle singole persone.
La decisione di ritirarsi presa da Abbiati, come detto, non sembra frutto di un percorso maturo svolto facendo importanti riflessioni personali, ma pare una scelta fatta da chi non riesce più a sopportare determinate circostanze, come far parte di un gruppo non forte e unito, che perciò non rispetta le regole e così non riesce ad ottenere risultati importanti. Se così fosse, Christian avrebbe preso una decisione dettata non dalla sua volontà ma da condizionamenti esterni, con un unico finale possibile: aver smesso di giocare quando ancora si potevano trovare stimoli psicologici importanti, come voglia di vincere, divertirsi e far parte di un gruppo serio e coeso, in altre realtà sportive. Questo sarebbe davvero dannoso per la persona, come purtroppo ha già iniziato ad ammettere quello che ormai è già un ex grande portiere del calcio italiano.
“Inizierò a soffrire a metà luglio, quando la squadra andrà in ritiro e io non ci sarò. La realtà è che non mi sono ancora sfogato, non ci ho ancora fatto su un bel pianto. Avrei voluto che succedesse a San Siro, con la Roma, ma nulla. Prima o poi crollerò, in privato”.
Fonti: “La Gazzetta dello Sport”
Dott. Davide Ghilardi